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giovedì 19 aprile 2012

Prison Of Mirrors - "Manning The Galleys"

Full-lenght, Autoprodotto / Indipendente, 2012

Dissipo immediatamente qualsiasi timore: non si tratta di una cover band del compianto progetto di Scott Connor, Xasthur. Potete stare tranquilli, non sarete avvolti dalle oscure e tetre spirali del prigioniero degli specchi californiano. Piuttosto dovrete confrontarvi con un’altra tipologia musicale proveniente dagli USA che trova, come oramai accade con una frequenza assai regolare, le sue radici nella florida scena della Cascadia, ossia in quell’insieme di realtà estreme, ispirate dai conterranei Agalloch e dai successivi Wolves In The Throne Room, in cui l’elemento atmosferico, quasi mistico, risulta essere il nucleo della proposta, o comunque il fondamento delle composizioni offerte.


I Prison Of Mirrors non fanno eccezione: una panoramica quanto mai veloce delle sei tracce che formano "Manning The Galleys", seconda opera in studio del gruppo, il quale però, è da precisare, conta probabilmente un unico elemento (in rete non è possibile determinare se il master-mind Brandt si avvalga della collaborazione di altri musicisti) e permette di comprendere come l’artista mischi un tappeto di arpeggi acustici a contributi provenienti dal Black Metal di matrice più riflessiva, naturalistica, sulla via già spalancata dalle band sopradette. Spicca inoltre la durata importante degli episodi, raramente sotto i sei minuti di lunghezza, ma è da riconoscere la bravura del compositore nel costruire progressioni, seppur ripetute o variate leggermente, che riescono nell’impresa di non risultare monotone, o peggio monolitiche. Certamente in tracce come "Horn Of Winter" non si riscontrano tendenze al dinamismo, tuttavia l’impronta melodica fortemente cercata ed ottenuta svolge adeguatamente il suo compito di intrattenitrice. Soffermiamoci un istante sulle emozioni che il disco regala, goduto nell’ambiente giusto, in quanto mai mi stancherò di ripetere che ad ogni composizione, successione di note, corrisponde lo spazio aperto o chiuso maggiormente atto alla compenetrazione dell’opera. Alcuni risvolti prettamente “espressionisti” di album come "Pale Folklore" o, per spostarsi in ambito Viking, "Sankarihuata" dei Moonsorrow, non sarebbero accessibili se attorno a voi non vi fossero certi riscontri dati dalla realtà. Questo non significa che stando chiusi fra quattro mura asettiche non si possano cogliere aspetti profondi, ma senza dubbio la comunicazione mostra segni di sofferenza. "Manning The Galleys" narra di boschi colpiti anzitempo dall’inverno, ineluttabilità, male di vivere, trasmettendo i sentimenti con una delicatezza sobria, attraverso una voce che non rientra propriamente nei canoni stretti del Black Metal, poiché, nei suoi sporadici interventi (lo squilibrio fra musica  e parole è uno dei punti di forza), esce dall’ugola straziata, a fatica, cercando aria per esalare i respiri.

La scelta di servirsi di tempi lenti in aggiunta, accentua con inaudita gravità la desolazione che pervade il disco, questo suo essere ridotto ai minimi termini, non ricco di tecnicismi (benché parti soliste di pregio ve ne siano), ma di anima, quella autentica.La produzione si attesta, per nostra fortuna, su livelli discreti: non si pretenda di ascoltare suoni pompati o equalizzati professionalmente, in quanto il progetto non è supportato da una label (stranamente aggiungo), ma è chiara l’intenzione di non rovinare un ottimo platter con un missaggio sotto il livello della decenza. Vengono in aiuto a questo ideale le impalcature stesse delle canzoni, presentandosi ricche sì di arpeggi acustici, inserti timidi di basso, difficili da rendere con naturalezza, però prive di accelerazioni decise in tremolo picking, o di accordi minori suonati al massimo della distorsione  (esempio su tutti, il Burzum dell’album omonimo), che contribuirebbero a trasformare l’ordinato snodarsi della tracce in pura confusione. Limitati anche gli inserti di doppia cassa, forse per inadeguatezza tecnica. Ciò sembra trapelare infatti dal poco spazio globale concesso alle percussioni, sovente semplice e scarno accompagnamento alle discrete  sfuriate, da cui emergono blast beat essenziali, lineari, scolastici, ancorché efficaci. Potrebbe però anche trattarsi di una scelta artistica, per non intaccare l’atmosfera melodica con ingombranti richiami al lato ruvido dell’estremismo musicale. Un ulteriore punto a favore è sicuramente l’attenzione profusa nell’armonizzare le progressioni dei brani, nei quali non v’è quell’insistita ricerca della dissonanza, della sorpresa o rottura degli schemi tonali, affine  al cromatismo di scuola Thrash, che è penetrata lentamente nel Black Metal. Le tracce si presentano quindi compatte, legate in qualche misura anche al modo melancolico di scrivere partiture degli inglesi Self-Inflicted Violence, sospeso fra la voglia di esplodere ed urlare la frustrazione e di equilibrio mentale, che si sfoga nell’immedesimazione con la Natura, senza però perdere la personalità, sempre ben visibile (spiccava, in effetti fin dal debutto).

E’, in conclusione, un album destinato o dedicato agli amanti della lentezza, del pensiero che vince sull’azione. Non mancano, ovviamente, momenti concitati, ma non è su questi, come spero di aver reso limpido, che il master-mind fonda il suo operato (è però da ammettere che un pezzo del calibro di "All We Cherish In Embers" non sfigurerebbe in un’uscita di Wyrd!).  Promosso a pieni voti, a conferma dello stato di buona salute creativa della zona della Cascadia, patria di una piccola rivoluzione in ambito musicale, supportata pregevolmente da un numero di musicisti talentuosi in continua crescita.

Recensione a cura di: Thanatos
Voto: 75/100


Tracklist:

1.Desiccation 4:45
2.Galley Slaves 6:48
3.All We Cherish In Embers 12:36
4.Horn Of Winter 9:49
5.Sanctity in Chains 11:54

http://prisonofmirrors.bandcamp.com/